La giornata è soleggiata ed anche abbastanza calda per il periodo, il cielo azzurro è spezzato da ciuffi sparpagliati di nuvole. Dopo una lunga riflessione sull’utilità o meno di portare con noi le ciaspole, ci incamminiamo sul classico sentiero che si dipana sul filo della lunga e tormentata cresta che passando per il Colle Cimata, la Morra Costantino e le Coste del Tarinello conduce fino alla splendida vetta del Monte Tarino (1961 m.s.l.m.), nostra meta di giornata. Dopo i primi passi mossi sul crinale assolato ed asciutto, la neve si fa rapidamente alta e cedevole rendendo necessario l’ausilio delle ciaspole, alla fine saggiamente caricate sugli zaini, insieme ovviamente a ramponi e piccozza. Poco oltre la nostra strada si intreccia con quella di un lupo, il quale ha scavalcato da poco il crinale ed ha impresso sulla neve una nitida pista di impronte; fa sempre un certo effetto incrociare la strada dell’animale che qui è al vertice della catena alimentare. In circa un’ora di cammino tutto sommato agevole giungiamo all’attacco dei primi ripidi e sottili tratti di cresta, dove per via della pendenza trasversale le ciaspole divengono più un impedimento che un ausilio e così torniamo a camminare senza, pagando però con un grande sforzo fisico la scarsa durezza del fondo innevato (in diversi tratti ad ogni passo si sprofonda addirittura fino all’altezza delle ginocchia). A ripagare le fatiche ci pensa però per fortuna il panorama, il quale man mano che prendiamo quota si fa sempre più aspro e scenografico; il volo lento e planato di un grifone (Gyps fulvus) sopra le nostre teste è un più che valido motivo per fermarsi ad osservare e riprendere fiato. Il peso degli zaini, seppur riempiti con il minimo indispensabile (che in assetto invernale comprende comunque una lista di oggetti tutt’altro che leggeri…), si fa sentire costringendoci a soste sempre più frequenti lungo gli scoscesi pendii. Dopo oltre 3 ore di impegnativo cammino aggiriamo il limite massimo del bosco ed usciamo finalmente allo scoperto sulle alture sommitali del Tarinello, a circa 1850 m.s.l.m.; manca circa un’ora al tramonto e ci resta quindi ancora tempo per proseguire verso la vetta, ma sfortunatamente un denso banco di nubi ci avvolge completamente privandoci della vista in qualsiasi direzione. Inutile in queste condizioni andare oltre, decidiamo quindi di attendere in quella posizione, paesaggisticamente comunque valida, il diradarsi delle nubi e la luce dorata del tramonto. Luce che però non accenna minimamente a palesarsi nonostante lo scorrere dei minuti; il gelido pallore persiste inesorabile nonostante le gelide raffiche di vento che ad intermittenza spazzano le creste facendo precipitare sempre più la temperatura. Nella lunga salita attraverso la neve cedevole e bagnata anche il Gore-Tex dei nostri scarponi alla fine ha ceduto ed ora i piedi bagnati iniziano a soffrire seriamente per il freddo, una delle condizioni di disagio meno sopportabili. Intirizziti ed in preda allo sconforto per la lunga e fino a quel momento vana salita, dopo che un ultimo disperato sguardo all’orologio ci conferma che al di là delle nuvole il sole è appena sceso oltre l’orizzonte, decidiamo di ripiegare sulla via del ritorno, iniziando così a discendere il crinale coperto di neve ghiacciata tanto faticosamente risalito poco prima. Ma è proprio mentre ci sussurriamo sconsolati a mezza bocca “Niente da fare, sarà per la prossima volta” che uno squarcio di azzurro compare in alto tra le fitte nebbie; ci fermiamo di colpo, forse c’è ancora qualche minima speranza di godere del superbo panorama che la zona offre. Ed infatti tanto velocemente quanto inaspettatamente le nubi si diradano lasciandoci ammirare ampi tratti di un paesaggio al contempo severo ed incantato: tutte è avvolto dai freddi colori del crepuscolo, la cima innevata del Tarino è adornata da una volubile corona di lembi di nebbia mentre le nuvole più alte e sature di colore riflettono sulla candida neve una surreale dominante rosa. E’ incredibile come questi lembi di montagna cambino volto con lo scorrere delle stagioni: morbidi e verdi crinali alla portata di tutti in estate, gelide terre di ghiaccio dal sapore della vera montagna appenninica in inverno. Rinvigoriti dall’inattesa svolta, prima che tale effimera magia svanisca, in breve montiamo l’attrezzatura fotografica e ci affrettiamo a trovare qualche valida composizione fotografica in grado di raccontare lo scenico ambiente che appare ai nostri occhi. Ci troviamo al centro del grande impluvio carsico del Pozzo della Neve, da qui la biforcuta vetta rocciosa è il punto focale obbligato per i pochi scatti a disposizione. Appena qualche minuto di gloria e poi tutto scivola silenziosamente in una fredda e flebile luce d’argento; la notte oramai incombe sul paesaggio ed il freddo si fa letteralmente insopportabile, i piedi ghiacciati non hanno quasi più sensibilità e ad ogni passo pungono con dolorose fitte, idem le mani. In questi casi risuona nitida nella testa la consueta domanda su che cosa sia a spingerci ogni volta volutamente in queste situazioni di fatica e disagio: spirito di avventura, voglia di catturare immagini inusuali o forse più semplicemente l’innata necessita di vivere e toccare con mano gli aspetti più puri ed autentici della natura di queste montagne? Al momento il solo ripensare agli scenari unici nei quali ci siamo ritrovati appena poco prima è comunque una risposta più che convincente. Riposizionata negli zaini l’attrezzatura riprendiamo al buio la lunga via del ritorno; ad ovest oltre l’orizzonte balenano gli ultimi lontani riverberi di un tramonto dal sapore epico. Nel fitto bosco di faggi riecheggia di tanto in tanto il canto tremolante e suggestivo di qualche allocco mentre lontane, nel fondo della Valle del Simbrivio, spiccano le poche luci dell’abitato di Vallepietra, unica evidente traccia umana in un contesto di natura selvaggia. Nonostante la discesa agevoli per certi versi l’avanzata, per via del fondo cedevole il sentiero si rivela impegnativo anche al ritorno, tanto che alla fine giungiamo al punto di partenza stremati ma con la piacevole consapevolezza di aver vissuto per alcune intense ore nel cuore più selvaggio e remoto dei Simbruini, alle pendici di quel Monte Tarino così lontano ed impervio e proprio per questo affascinante da esplorare e riprendere come pochi altri luoghi di queste montagne, soprattutto in veste invernale. E poi un’avventura fotografica che proprio quando sembrava inesorabilmente destinata al fallimento ci ha offerto il suo risvolto più clamoroso e spettacolare. Se vogliamo, quasi una metafora di vita.